Una piccola scelta per un grande cambiamento: cosa puoi fare tu per salvare il pianeta
Ho sempre pensato che ognuno di noi avesse una responsabilità individuale per la deriva ambientale verso cui sta precipitando il nostro pianeta.
Il traffico metropolitano, le grandi industrie e le eco-mafie rappresentano una fetta importante del degrado e dello squilibrio nell'ecosistema Terra.
Ognuno di noi contribuisce, tuttavia, attraverso il proprio stile di vita, a immettere gas serra nell'ambiente e allo sfruttamento intensivo e indiscriminato delle risorse naturali.
A tal proposito, la rubrica “Pensieri”, curata dal Prof. Umberto Veronesi nel n°8 dell'agosto 2015 di “Ok Salute e benessere”, mi ha ispirato una profonda riflessione: al di là degli aspetti propriamente salutistici ed etici, la produzione e il consumo di carne hanno un fortissimo impatto ambientale e rappresentano una delle cause della fame nel mondo.
Come il prof. Veronesi, anch'io ritengo che uccidere esseri viventi per nutrirsi è “superfluo, crudele e a un'analisi razionale non più sostenibile”.
Secondo le stime dell'Onu, infatti, la popolazione mondiale toccherà nel 2050 i 9 miliardi di esseri umani. Ciò significa che il pianeta dovrà sostenere, nutrire e dissetare una popolazione umana in crescita costante, la cui domanda di risorse è sempre più pressante.
Acqua, cibo, terreni fertili, energia sono risorse limitate ed esauribili la cui distribuzione è disarmonica e ingiusta.
Nel mondo, infatti, coesistono realtà di chi si ammala per un'alimentazione eccessiva e chi, al contrario, si ammala per un'alimentazione carente.
Rinunciare, anche in parte, al consumo di carne significa ridurre, significativamente, quest'ingiustizia sociale.
Un terzo delle derrate alimentari prodotte dall'agricoltura, infatti, è utilizzato per sfamare il bestiame. Ridurre la quantità di carne presente sulle nostre tavole significa destinare i prodotti dell'agricoltura per sfamare quella larga fetta della popolazione umana che vive in condizioni di povertà estrema.
Gli animali da allevamento sono costretti alla riproduzione affinché possano produrre latte e carne e questo comporta sempre maggiori necessità nutrizionali per loro, senza contare l'uso di risorse idriche per l'igiene e l'abbeveraggio.
Le stesse coltivazioni sono fonte di sprechi e di inquinamento, a causa dell'uso indiscriminato di acqua e pesticidi.
Secondo la LAV (Lega AntiVivisezione), la filiera della produzione di carne impiega il 30% delle terre emerse e il 70% di quelle utilizzabili in agricoltura. Ciò significa una grave compromissione degli equilibri nei singoli ecosistemi, un forte impatto sui cambiamenti climatici, acidificazione delle terre, inquinamento ed eutrofizzazione delle acque, inquinamento atmosferico, utilizzo di energie non rinnovabili e risorse naturali.
Per produrre un kg di carne occorrono 10 kg di mangimi e 15.500 litri d'acqua e si immetterebbe nell'ambiente, in termini di produzione di anidride carbonica, l'equivalente gas serra prodotto da un'automobile in un tragitto di 250 km.
La richiesta sempre più pressante di pascoli e di terreni da destinare alla produzione di mangimi ha spinto paesi pluviali come il Brasile ad attuare politiche sempre più incisive di deforestazione in Amazzonia. La foresta amazzonica costituisce, oltre all'habitat naturale di molte specie animali, un importante polmone verde per il pianeta. Questo comporta, oltre ad un'irreparabile perdita di biodiversità, una diminuzione della produzione di ossigeno che avviene con la fotosintesi clorofilliana.
Gli alberi e le piante verdi hanno la funzione di trasformare l'anidride carbonica e l'acqua in zuccheri complessi e in ossigeno come prodotto di scarto. Inoltre, ogni anno, milioni di ettari di foreste vanno in fumo liberando ingenti quantità di gas serra.
Il Brasile rappresenta il primo paese esportatore nel mondo di carne bovina, ma solo il 6% proviene dalle aree disboscate delle foreste amazzoniche.
Produrre carne rossa inquina in misura notevolmente maggiore che produrre riso e cereali.
Una dieta vegetariana, dunque, non solo produrrebbe un risparmio in termini di risorse del suolo e un minor impatto ambientale, ma riconoscerebbe agli animali lo status di esseri senzienti, titolari di diritti tra cui quello alla vita e al benessere.
Gli allevamenti intensivi costringono gli animali a vivere in spazi angusti, a sovralimentarsi e ad ingerire farmaci e ormoni per crescere sempre più rapidamente e in modo innaturale.
La produzione di latte costringe le mucche, le pecore e le capre a gravidanze continue che sfibrano l'animale nel fisico. I piccoli sono prematuramente separati dalle madri e privati del latte a loro destinato dalla natura, alimentati con mangimi artificiali, uccisi nei macelli come nel caso dei vitelli o degli agnelli o castrati senza alcun anestetico.
La produzione di uova confina le galline in batterie, spazi ristrettissimi dove sono private do ogni genere di movimento, sovralimentate per ottenere un numero di uova superiore a quello naturale. I pulcini, nati per il ricambio generazionale delle galline ovaiole, sono gettati vivi nei tritacarne se di sesso maschile.
Queste riflessioni hanno generato in me una profonda convinzione: problemi come la sostenibilità ambientale, la sproporzione nella distribuzione delle risorse alimentari e lo sfruttamento indiscriminato degli animali non potranno mai essere risolti se non attuando una profonda e consapevole rivoluzione dei nostri comportamenti individuali e collettivi: a tavola come in altri settori della vita evitando sprechi e comportamenti inquinanti.
Modificare il proprio stile di vita è una piccola scelta per un grande cambiamento.
I dati sono stati diffusi a Londra nel 2008 dallo scienziato indiano Rajenda Pachauri, Nobel per la Pace e Presidente dell'Intergovernmental Panel on Climate Change dell'Onu.