Nel ricordo di te
… ho provato a confondermi nel ricordo di te...
Ho suddiviso parole, ricordi, i miei ed i tuoi desideri e gli accordi ad orecchio di mille canzoni.
Alcune ho provato ad ascoltarle senza volume, in modo che il silenzio potesse ridarmele come nuove. Inutile, ogni traccia era un marciapiede di molecole d’aria che mi portava a te, ed eri cosa nuova ma non quella che volevo.
Allora, ai piedi della libreria, ho perfino fatto a pezzi le foto di me, di te, di noi, della tua schiena, le spine di alcune rose e la carta dei biglietti dei treni che ho dovuto vivere per venirti a sentire.
Le spine le avevo dimenticate sui denti in primo piano di un sorriso di Ricardo Reyes (raro mi dicevi), mentre sul retro dei biglietti tu mi scrivevi del vero Pablo Neruda e di vento e di ciliegi e di aria di primavera.
I dischi, i tuoi 45 giri, li ho dovuti prendere al centro, con cura. Sul bordo, rischiavo di tagliarmi e non sarebbe stato bello poi doverti richiamare per il filo di sutura.
Sul pavimento ho steso e raccolto tutto quanto in uno dei tuoi foulard, del colore dei tuoi capelli e l’ho lasciato per terra.
Ho aperto le finestre nella stanza, quelle due, quelle opposte, quindi tutte, sperando che entrasse aria a rimescolare il resto del nostro sisma… o forse, con il mio coraggio chiamato paura, disperderlo, ma riportarlo al piano di un ground zero della nostra vita.
Niente. Niente ma. Niente se. Niente di niente.
Ho acceso una sigaretta che mi è morta tra le dita, ho aspettato inutilmente che soffiasse un poco di aria, che gli atomi di ossigeno si spostassero a me, ma non sapevo come farmeli almeno nemici, che venissero a cercarmi.
Avevo paura poi di addormentarmi.
Allora ho aperto anche le porte. Più di una, tu conosci pure quelle.
Le stesse dove ti abbracciavo, uguali a quelle che spingevo con forza alle tue spalle dopo averti messo in tasca la lista delle mie paure, i vuoti delle mie paranoie e le ricette delle tue verginità.
Ma per paura che si potessero chiudere, ci ho messo degli incastri agli stipiti. In tasca avevo appunto un mazzo di carte, quaranta, tutte quante. Un mazzo completo.
Ne ho rubate poche per volta, come se stessi levando tempo al mio tempo ed ho bloccato porte e finestre per farle schiave ubbidienti al vento. Ho aperto perfino quella sopra l'abbaino, sullo zenith del letto ad una piazza e mezza dove andavamo a dormire e a fare l'amore quando sapevi già che non avresti sognato.
Mi dicevi, ricordi, che amavi guardarmi alla luce della luna e che non saresti scivolata via dal letto se mi fossi addormentato là.
Il vero perché, poi, non l'ho mai capito.
Ho provato a ragionarci, con calma, su questo, su altro e su quello che il mondo di noi non conosce e mai saprà, ma mi sono addormentato sull’eco dei tuoi occhi.
È stata questa la mia colpa, la condanna il peso della tua assenza. Mi son svegliato e tu non c’eri, ladra di vento. Le finestre, tutti gli usci, erano chiusi.
Era tutto in ordine e pulito, come se nemmeno i miei pensieri avessero elencato le prime mie intenzioni.
Sul tavolo dove amavi disegnare, erano larghe le tue matite, la gomma pane ed un nuovo chiaroscuro, forse per dimenticare.
Accanto, come un fuori campo sull’anima, c’era il tuo foulard chiuso.
Il nodo, di una ciocca di capelli, teneva insieme i lembi ed una carta, una nuova, del gioco dei Tarocchi.
Degli arcani maggiori, la sesta.
Quella dell’amore.?