Tre dialoghi e una comica finale
I racconti di Giuse Alemanno nella penna di Raffalee Gorgoni: un tazebao di soprendenti storie e sillogismi che trasformano la parola in grimaldello, le narrazioni in leggende, la modernità in un perenne vintage
Da dove gli doveva venire a Giuse Alemanno di impinnacolarsi (salire su un alto pinnacolo e lì restare in precario equilibrio) in queste storie di slabbratissima e tardissima modernità?
Chi glielo doveva dire di prendere almeno due Mostri Sacri del settentrionalismo (rara forma politica di cattoliberismopeccatorio e iperstatalista), nientedimeno che Alessandro Berlusconi e Silvio Manzoni (forse è il contrario, ma non importa) e trascinarli in un Hellzapoppin’ vasciaiolo tra improbabili interlocutori canini e non?
E Lui & Lei? E Jack & Jack?
Serissimo narratore di vicende siderurgiche e operaie, nonché acuto storyteller di cafoni e aristocratici, Giuse, una mattina, si arrampicò sull’impianto più alto dell’Ilva e …
… e che?
Secondo le regole doveva srotolare uno striscione, un tazebao per dichiarare che se non risanavano subito tutto il territorio da Tamburi a Santa Maria di Leuca si buttava.
Questo, secondo le regole.
Ma Giuse non sta nelle regole e, soprattutto, se si butta, si butta in imprese impossibili a fronte delle quali risanare l’Ilva e dintorni sarebbe una bazzecola.
Insomma Giuse salì sull’impianto più alto dell’Ilva per dare un’occhiata alla tarda modernità, quella che per vederla devi salire molto in alto fino dove lo sguardo può spaziare nei retrobottega della politica, dell’economia, delle culture dominanti, e perfino dell’antropologia.
La modernità, quella novecentesca, per intenderci, Giuse l’aveva sotto i piedi con tutti i suoi forni, altoforni, colate, treni, carri ponte, tubi, bramme, coils, cazzi e mazzi.
Già questo è un problema.
Perché se passi una quota non trascurabile di tempo a contatto con il moderno, con il 900, per esempio con una fabbrica, una chiave inglese, una gru (anche con un computer ma che muove e fa succedere cose), c’è caso che se ti capita in tv un pirla che discetta di postmoderno e si capisce che non sa neppure cambiare una lampadina; beh, c’è caso che ti girano.
Non ne parliamo se capita qualcuno che se la tira sul general intellect, sulla postmodernità, quel mondo delizioso nel quale la fantasmagoria della merce dematerializza tutto fino al punto di dissolvere le cose nel loro carattere di feticcio.
Insomma, la modernità, quella tarda (anche nel senso di cretina) era lì, sull’orizzonte, dove un Manzoni revenant si lascia insolentire da un ignoto interlocutore, piegato dal peso della sua stessa storia (che in fondo non era che una tragica melassa di buoni sentimenti, senza sesso, senza soldi, senza intrighi, che se non era per Don Rodrigo e per la Gertrude …).
Ma si sa, a Milano il partito dell’antenato Beccaria, di fatto, aveva perduto la partita e con lui quel manipolo d’illuministi, fino a Pietro Verri e Carlo Cattaneo, più inclini ad applicarsi alle diagnosi e alle terapie dei mali politici e sociali che a tuonare retoriche.
Mentre una ridotta pattuglia cercava di occuparsi di agricoltura, di finanze, di commercio, dell’arte di governare i popoli, gli eroici furori di Alfieri, Foscolo stavano preparando titanismi e chiacchiere delle quali si sarebbe nutrita l’Italietta risorgimentale fino al fascismo e ben oltre.
E Manzoni? Teneva quella fissazione del primato della morale ma, nello stesso tempo (poiché non era affatto scemo) sapeva che la Storia non ha nulla di morale.
Quindi, tra Storia e Morale l’inconciliabilità è assoluta.
E allora? E allora era meglio se anziché fare sfottere il povero Manzoni da Uno che fa domande, lo si fosse affidato alla tenerezza canina di Dudù che giustamente soccorre Silvio avviato manzonianamente al pentimento e alla punizione.
Sullo sfondo dei primi due dialoghi, dove Alessandro e Silvio giganteggiano possiamo immaginare i loro fantasmi, anzi, Alessandro e Silvio nei panni dei fantasmi de Il Conte di Carmagnola e di Adelchi, eroi eroicissimi ma dove il grado del loro eroismo si misura unicamente dall’intensità della loro frustrazione.
Da lì in poi è tutto in discesa.
Se i Padri (si fa per dire) della Patria (anche questa, si fa per dire) scendono nell’avello della dimenticanza o salgono al patibolo dell’oblio, l’orizzonte che si vede dalla più alta torre dell’Ilva si affolla di Lui & Lei.
Va in scena quello che gramscianamente potremmo definire Lo Scatafascio Collettivo.
Facile immaginare Giuse che non crede ai propri occhi.
Impugna un potente binocolo per vedere meglio, per frugare tra le brume e i fumi e scopre che al posto delle Cheradi c’è ormai l’Arcipelago dei Famosi, dove impazzano voyeurismi e tecnologie, vaniloqui digitalizzati e isterie da consumo.
Giuse non l’ha mai confessato ma la scoperta che il reality è un’iperrealtà, una realtà aumentata e che viviamo tutti in un serial, in una telenovela, in un talk show, gli ha fatto quasi perdere l’equilibrio.
Giuse vorrebbe scendere da quell’osservatorio ma è il suo stesso sguardo a trattenerlo, lo incatena all’osservazione del Grande Tinello, dove immagina il vaniloquio, la coazione a ripetere, lo straparlare.
Da lassù lo sguardo scorre sulla Camera da Letto Generale, il grande supermercato del porno soft televisivo dove, persino nell’infotainment un bel paio di cosce non si nega a nessuno.
Mette a fuoco il binocolo sul Mega Salotto Corale nel quale si sperimentano le nuove funzioni del Mental Karaoke.
Macchina mirabile!
Se prima ci si gratificava nell’immedesimarsi in Vasco Rossi e la nostra inadeguatezza vocale o tonale era sfumata nel frastuono tra le casse e altri stonati, oggi, con il Mental Karaoke, siamo in grado di piazzarci davanti al televisore e avere la possibilità di pensare all’unisono … che so? con Gasparri o con la Madia o addirittura di anticipare di una frazione di secondo il pensiero (si fa per dire) dell’Annunziata o di Floris e, meglio ancora, dei loro ospiti, in un circobarnum rutilante di banalità, luoghi comuni, finte invettive, vere cazzate, parole, gesti, espressioni del volto imbarattolate in quell’elettrodomestico che, quanto a spessore intellettuale, può reggere il confronto soltanto con l’oblò della lavatrice quando la centrifuga va a 500 giri.
Lui & Lei ed entrambi sono Alfa e Omega, inizio e fine di tutto, ronzio del microonde, basso continuo di un radiorosario, antifurto in tilt, mantra pubblicitario, borbottio e borborigmo.
A questo punto Giuse folgora la nostra tarda modernità, sulla soglia della Comica Finale.
Dunque, Alessandro Manzoni, Dudù e Lei, Silvio, Lui e Uno che fa domande (non necessariamente in quest’ordine) ci hanno perfettamente chiarito il senso di una cosa che persino Giuse, arrampicato com’era sulla più alta torre dell’Ilva, forse stava trascurando.
Il significato più profondo, metafisico, politicamente intripiquato (complesso) della tarda modernità è: Non avere niente da dire ma ostinarsi a dirlo!
Lì per lì Giuse questa cosa non l’aveva capita. Si era fatto sviare dal paesaggio ma, quando, mettendo a fuoco l’umanità che si agitava sull’orizzonte, aveva compreso il senso diquella bailamme, n’altro poco veniva giù con tutto il binocolo.
Anche se il volo non sarebbe stato breve, non avrebbe fatto in tempo a prendere gli appunti necessari perché almeno i posteri stilassero l’esito della sua straordinaria intuizione.
Giuse si afferrò a un esile parapetto sperando che la ruggine non lo avesse del tutto corroso e prese a scendere un’infinita serie di pioli, anch’essi precarissimi.
Ora sentiva solo il Grande Ruggito dell’Ilva, il respiro pesante della Megamacchina, l’ansare affannato del '900 che rincorre il secolo successivo.
Quel bagno di realtà lo scosse.
Ancor più era frastornato dalla sua micidiale scoperta.
Possibile che lo strutturalismo, il postverismo, l’umbertoechismo, il prerelativismo, la transavanguardia, il mariadefilippismo. Insomma, possibile che tutti gli ismi, tutte le grandi correnti del pensiero, tra secondo e terzo millennio, avessero trascurato questa scoperta che, a pensarci bene, era un po’ come La lettera rubata, talmente in evidenza da sfuggire all’attenzione?
Sì, era possibile.
Raggiunto il Grado Zero, Giuse si diede a riflettere appunto sulla sua scoperta e decise di trascrivere quello che aveva visto e aveva immaginato di udire.
Non avere un cazzo da dire ma ostinarsi a dirlo era l’essenza della tarda modernità.
Ne era talmente intriso il linguaggio politico, economico, letterario, televisivo, giornalistico che, alla fine sembrava che tutti fossimo finiti in una Vacuosfera, in un posto strapieno di vuoto.
Giuse ci scrisse su queste tre piccole pieces per cercare di rasserenarsi ma un po’ di rabbia gli restava.
Non gli era passata quella specie di varicella intellettuale, di morbillo mentale, insomma quelle esantematiche giovanili che hanno la complicanza di voler stabilire un pur vago nesso tra le parole e le cose.
Col tempo la sindrome si era aggravata in una sorta di malattia professionale.
E’ che la gente sente la parola acciaio e gli viene in mente il ripiano della cucina, un’idea televisiva dell’acciaio.
Questo era il problema: Giuse non aveva un’idea televisiva dell’acciaio e, per la verità, in generale tendeva a non avere un’idea televisiva delle cose.
Teneva sempre in testa quella storia della relazione tra significante e significato che la maestra delle elementari gli aveva inculcato a bacchettate sulle dita.
Tutta quella storia che parlare e/o scrivere è definitivamente sconnesso dal senso, pura performance, non solo non lo convinceva ma lo faceva proprio incazzare.
A Giuse gli verrebbe voglia di sparare ma in maniera innocua, come Abatantuono in Puerto Escondido che spara al televisore dove va in onda uno show della Carrà.
Ripensò alla bella stagione dei western, della Corsa all’Ovest e poi alla stagione di quelli all’italiana. Passò in rassegna i suoi pistoleros prediletti: John Wayne, Clint Eastwood, James Coburn, Lee Van Cleef e persino Gian Maria Volonté.
Così, quasi in un esperimento di scrittura automatica, cominciarono a prendere forma sulla pagina Jack & Jack e una lunga storia di vendette incrociate e una sfida, un duello, ma proprio immaginato come Eastwood e Volonté in Per un pugno di dollari e tutti in attesa della frase celebre: Al cuore, Ramon!
Ma Jack & Jack hanno sprecato tutti i loro colpi sul pubblico che assiste alla scena. In altre parole, su di noi.
Anche la vendetta è una pistola scarica…